Posted by pj su 2 luglio 2010
Abbiamo perso il senso del limite? Se lo chiede, in un interessante intervento su Panorama, Giulio Meotti, che rileva come «nella stagione delle nonne che diventano mamme, dei trans, delle discussioni infinite su aborto, eugenetica ed eutanasia, i confini non contano più… siamo così confusi da fare sempre più fatica a distinguere la vita dalla morte, il padre dalla madre, il maschio dalla femmina».
Un articolo lungo per lanciare un allarme e una speranza: «che dai casi che più hanno diviso l’opinione pubblica recentemente si possa trarre una lezione. Abbiamo perso il senso del limite».
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Posted by pj su 13 aprile 2010
«Come mai in Italia l’espressione “fare la cosa giusta“, di tutte quelle importate dagli Stati Uniti, è l’unica che non ha avuto alcun successo, o almeno non è entrata nella lingua parlata?», si chiede Filippo La Porta oggi sul Corriere.
Mentre Obama ha rilanciato la formula proprio di recente citando Lincoln, e nonostante da noi un film l’abbia introdotta nel linguaggio parlato già nel 1989, questa «locuzione dal sapore evangelico-coscienziale molto diffusa oltreoceano» non trova estimatori dalle nostre parti, al contrario di esclamazioni come “alla grande!” o frasi fruste come “fare la differenza”.
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Posted by pj su 8 agosto 2009
La settimana di consigli letterari è cominciata con Tra i giusti (Marsilio), indagine sull’Olocausto in Africa. A realizzarla e darne resoconto in un libro è stato Robert Satloff, esperto in politica dei paesi arabi e islamici, che ha lavorato per quattro anni per ricostruire le storie, rintracciare i superstiti in giro per l’Europa e il nord Africa, visitare i resti dei famigerati campi di lavoro africani.
Con dovizia di particolari e ampi riferimenti alle fonti Satloff racconta una storia praticamente inedita, che – com’è avvenuto anche in Europa – ha visto coinvolte le popolazioni locali, in particolare gli arabi, nel bene e nel male: c’è il bene di gesti toccanti e umani, e c’è il male del collaborazionismo, ma non solo: Satloff classifica come “male” anche quell’indifferenza che ha caratterizzato molti di fronte a un’ingiustizia intuibile.
Abbiamo poi virato verso il Settecento per un classico di John Wesley, pubblicato da una collaborazione tra Claudiana ed Edizioni GBU. Si tratta di La perfezione cristiana e ripropone in italiano – a distanza di 118 anni dalla prima pubblicazione nella nostra lingua – A plain account of Christian Perfection, datato 1765. Interessante anche la decisione di mantenere la traduzione originale di oltre un secolo fa, con adattamenti a cura dello studioso Massimo Rubboli che, tra l’altro, nell’introduzione contestualizza il messaggio di Wesley: scopriamo così che il predicatore inglese già in altri scritti aveva affrontato il tema della perfezione cristiana e la mise al centro del suo impegno personale fin dal 1725, 40 anni prima della redazione di questo volume. Il libro è quindi un vero compendio dei suoi studi, delle discussioni, delle convinzioni maturate da lui, esperienza dopo esperienza, sull’importante tema.
Storia contemporanea, invece, per l’ultimo lavoro – uscito postumo – di Ryszard Kapuscinski, Nel turbine della storia (Feltrinelli): una riflessione globale di un giornalista di lungo corso, autore dagli anni Ottanta e Novanta di numerosi resoconti dai luoghi “caldi” del pianeta e di sottili analisi sulla situazione geopolitica dei luoghi e del pianeta nel suo complesso. Nel volume Kapuscinski analizza la situazione nelle singole aree continentali, le tendenze globali e i possibili scenari futuri.
Un quadro d’insieme tra passato e presente che, per quanto resti “senza conclusioni” – perché, come ricorda l’autore, “nessuno può dire con sicurezza in che modo andranno a finire le cose” – è un documento, uno strumento di riflessione, uno stimolo ad affrontare il mondo nella sua globalità imparando a guardare oltre il proprio giardino.
L’etica del lavoro è invece il tema di Controcorrente: la mia storia di cristiano e di manager (Città nuova) di Giuseppe Sbardella: l’autore riassume il senso del suo impegno spirituale, sociale, lavorativo come professionista cristiano; in poco più di duecento pagine, affronta temi su cui tutti, probabilmente, ci siamo interrogati almeno una volta: tra questi il rapporto tra fare e apparire, il “sapersi vendere”, il rapporto tra collaborazione e competizione, l’amicizia sul posto di lavoro, l’opportunità del lavoro domenicale, le soluzioni alla “tirannia del cellulare aziendale”, le relazioni con altre culture, il rapporto tra lavoro e preghiera, ossia la visibilità cristiana in azienda.
Tutto questo nell’ambito di un percorso professionale che si fa anche percorso di vita, e che ha permesso a Sbardella di arrivare alla pensione senza limitarsi a essere un buon lavoratore, ma offrendo qualcosa di più: il suo risultato non è stato solo economico ma ha arricchito l’azienda anche sul versante umano.
Chiudiamo con un classico della letteratura latina, L’arte di saper parlare, ossia il celebre Orator di Marco Tullio Cicerone (Newton Compton), proposto con testo latino a fronte nella traduzione di Mario Scaffidi Abbate.
Il volume viene considerato un’opera fondamentale nella storia dell’eloquenza, e affronta temi che, fino a quel momento, non erano stati codificati e che ancora oggi, se ci si fa caso, hanno una loro importanza negli oratori pubblici. Cicerone per primo riconosce nel ritmo una componente fondamentale, e per questo studia e fissa una legge che determina la combinazione delle parole più opportune alla cadenza del discorso.
A margine delle illuminanti note di Cicerone, è interessante leggere anche l’introduzione di Mario Scaffidi Abbate, docente di letteratura italiana e linguista: i numerosi esempi biblici portati dallo studioso sul potere della parola dovrebbe convincerci una volta di più su quanto sia importante saperla usare al meglio.
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Posted by pj su 2 aprile 2009
«Ho bisogno di Dio e credo nell’amore»: è il titolo di un articolo del Corriere che ieri ha intervistato il cantante Nek.
Nel pezzo si parla anche di fede: lo spunto è il videoclip del suo nuovo singolo, “Se non ami”, brano che, spiega l’autore, ha «scritto dopo aver letto l’Inno alla carità di San Paolo, testo che va alla radice dell’amore, descrivendo come la forza di questo sentimento possa trasformare le persone. Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei un bronzo risonante o un cembalo squillante, dice San Paolo. Come dargli torto?»
Già, come dargli torto. Certo, questa dichiarazione metterà a disagio i tanti che distinguono la musica cristiana dalla musica secolare, i cantanti cristiani dai cantanti secolari, i talenti cristiani dai talenti secolari.
Se non è credente, come ha potuto comprendere e cantare un passo della Bibbia?
Dio, a volte, lavora con ironia. Illumina con rivelazioni sorprendenti una persona che probabilmente, per i nostri canoni, non considereremmo “credente”. Gli fa capire l’importanza del messaggio divino, la bellezza di un passo biblico, il valore della fede.
Forse non ha ancora fatto una scelta consapevole in questa direzione, ma sta aprendo gli occhi. Troppo poco? Forse per qualcuno di noi, sì; per la Bibbia no.
Il seme ha bisogno di tempo per germogliare, e questo può essere frustrante per chi aspetta. Ma se il terreno è buono, ci sono tutte le premesse per un buon raccolto, a tempo debito.
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Posted by pj su 24 febbraio 2009
Una ricerca dell’università di Bocconi di Milano getta una nuova luce sui clochard che vivono nelle strade della metropoli: «Sono uomini, istruiti, nel pieno della vita… sono persone comuni: l’età media è 40 anni, il titolo di studio più frequente è il diploma di scuola superiore».
Forse il dato più sorprendente è proprio quello relativo al grado di istruzione: «Su circa 4mila senzatetto intervistati, il 30 per cento dichiara di aver concluso gli studi superiori, il 7 per cento di aver addirittura conseguito la laurea».
Non sono fannulloni, ma lavorano quando e come possono: in un periodo difficile per tutti, spesso non ricavano più di un’occupazione interinale o di qualche attività in nero.
Le ragioni della loro vita raminga sono meno scontate di quel che si pensa. Per gli stranieri «la vita per strada è una condizione temporanea, dovuta all’immigrazione. Chi arriva nel nostro paese spesso non ha lavoro, non conosce la lingua, non ha i documenti in regola. Per questo non riesce a trovare casa e si accontenta del marciapiede, almeno i primi tempi».
Il clochard italiano, invece, «nella maggior parte dei casi ha subito un grave trauma: ha divorziato, perso il lavoro, si è ritrovato senza casa da un giorno all’altro».
Stando alla ricerca della Bocconi, quindi, è lontano dalla verità lo stereotipo del barbone alcolista: «droga e dipendenza dall’alcol coinvolgono solo il nove per cento dei clochard».
Insomma, per le anime in pena che i milanesi scorgono sotto i portici del centro cittadino alla sera infagottate in una coperta e circondate di stracci, «dormire in strada non è una scelta, ma la conseguenza di traumi sociali e familiari».
Il Giornale, commentando l’indagine, nota giustamente che si tratta di un quadro molto lontano dall’immaginario collettivo. Noi aggiungiamo che questa indagine offre una nuova possibilità: non ai clochard, ma a noi.
A quanto pare sono pochi i barboni-filosofi raccontati spesso nei telegiornali, personaggi eccentrici che rivendicano la loro libertà anche a costo di una rinuncia parziale alla dignità.
La maggior parte dei senzatetto vive una realtà molto più prosaica: dietro quelle facce spaurite e sporche si nasconde un dolore, un dramma, una disgrazia.
Spesso li guardiamo con indifferenza, fastidio, forse anche con un po’ di paura. Magari da oggi potremo osservarli con occhi nuovi.
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