Posts Tagged ‘Imparare’
Posted by pj su 14 gennaio 2010
Due notizie. Raccontano storie molto diverse, sono riferite da quotidiani diversi, risultano ambientate in località diverse, eppure sembrano collegate tra loro da un comune denominatore.
La prima vicenda si svolge nelle aule del tribunale di Salerno, dove un giudice ha stabilito con una sentenza la liceità della «diagnosi genetica pre-impianto e all’accesso alle tecniche di fecondazione assistita nei confronti di una coppia fertile, portatrice di una grave malattia ereditaria».
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Posted by pj su 4 gennaio 2010
I media avevano dipinto Ben Southall, assistente sociale britannico, come l’uomo più fortunato del pianeta. Alcuni mesi fa, prevalendo tra 34 mila candidati, si era guadagnato “il lavoro più bello del mondo”: sei mesi come ospite su un atollo australiano, la classica incantevole isola deserta, con l’unico impegno di promuovere la località in chiave turistica attraverso il web, a fronte di un compenso di 85 mila euro.
Quando la notizia ha fatto il giro del mondo, lo hanno invidiato un po’ tutti: sei mesi di puro relax da trascorrere tra giornate su spiagge da sogno, notti in una villa da due milioni e mezzo di euro, campo da golf per battere la noia. E una paga da favola (oltre 14 mila euro al mese).
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Posted by pj su 4 dicembre 2009
Quattrocento ore all’anno: è questo il tempo che, mediamente, ognuno di noi perde in coda tra uffici pubblici, casse del supermercato e ingorghi stradali. A pensarle tutte in una volta fa impressione: quattrocento ore, ossia sedici giorni e mezzo, vale a dire due settimane abbondanti, o se preferite quasi un giorno e mezzo al mese.
In qualche caso la coda si riesce a evitare, vuoi con una deviazione dal percorso principale, vuoi con le opportunità che ci dà l’elettronica; molte volte, però, non ci sono alternative: una raccomandata da ritirare, un pagamento in scadenza, un cantiere aperto all’improvviso sulla via di casa.
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Posted by pj su 17 settembre 2009
Il Magazine di questa settimana parla del cambio di rotta che ha caratterizzato il movimento evangelico USA in questi ultimi tempi: Ennio Caretto, nel descrivere la novità, conia la definizione di cristiani obamiani, che puntano “su clima, crisi e sanità per tutti”.
Naturalmente non perdono il loro nerbo i classici conservatori – su tutti l’inflessibile decano dei tele e radiopredicatori, James Dobson -, ma si avverte una nuova sensibilità, oltre che l’esigenza di cambiare e capire una realtà sempre più complessa, che si adatta meno che mai al consunto schema manicheo del confronto tra bene e male.
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Posted by pj su 3 agosto 2009
Che la crisi ci abbia riportato a una maggiore sobrietà è ormai noto: è bastato togliere i soldi dal portafogli di tutti noi per ottenere in pochi mesi ciò che i proclami di un decennio non erano riusciti a fare.
È dagli anni Settanta che abbiamo perso il basso profilo dei nostri genitori, e abbiamo preferito il concessionario all’officina, il negozio al calzolaio, la sartoria al rammendo. Oggi, l’inversione di tendenza: si ripara il possibile, si sostituisce solo l’indispensabile.
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Posted by pj su 25 giugno 2009
Ieri il Corriere, oggi Repubblica: la stampa italiana celebra Twitter, il nuovo sistema di comunicazione che – secondo qualche esperto – rende antichi siti, blog e perfino Facebook.
Twitter, spiega il Corriere, è una “rete basata su micromessaggi” di 140 caratteri al massimo con i quali ognuno può raccontare «”in diretta” a gruppi di amici, genitori o a fan (nel caso dei messaggi inviati da star dello spettacolo o dello sport) cosa sta facendo, cosa sta comprando al supermercato, a che ora andrà a prendere i figli a scuola».
Insomma, come il Corriere stesso ammette, una noia profonda, salvo che in occasioni eccezionali: come quando un utente di Twitter comunicò per primo bruciando perfino la CNN, l’ammaraggio sul fiume Hudson, o quando gli studenti iraniani comunicano gli sviluppi del loro dissenso, attraverso questo sistema, unica voce non imbavagliabile da parte del potere di Teheran.
Strumento utile, ma nei confronti del quale è necessaria la giusta cautela: si fa presto a parlare di citizen journalism, ma al volontariato giornalistico proposto dai cittadini deve corrispondere un’azione di verifica da parte del lettore, impegno che sulle testate tradizionali si sobbarcano (se lo facciano bene o male è un altro discorso) i giornalisti. Leggere un post su Twitter non è come leggere un giornale, e non solo per una questione di metodo.
In ogni caso il fenomeno andrebbe ridimensionato: non capita tutti i giorni di trovarsi testimoni casuali di un fatto storico e di avere i mezzi per raccontarlo. A fronte di queste eccezioni, come detto, il resto della comunicazione partecipata è solo noia.
Twitter per lo più è un ammasso di parole scritte senza convinzione per un pubblico quasi inesistente, e d’altronde solo una persona molto annoiata può passare la giornata a crogiolarsi negli insignificanti dettagli della vita altrui.
Il successo di Twitter dovrebbe preoccuparci: è l’ennesimo indizio della nostra tendenza sociale all’isolamento, a parlare senza ascoltare, a pontificare anziché imparare.
«Ho un’opinione su tutto, e se non ce l’ho me la faccio», mi ha scritto anni fa una baldante giovane che, pur in assenza di competenze specifiche, si candidava al ruolo di editorialista.
A parte rari casi di blog e canali che si distinguono per la loro specializzazione, la maggior parte dei fenomeni di interattività – dai siti ai social network – vengono sfruttati dagli utenti solo per tamburellare sulla tastiera anziché farlo a vuoto sul tavolo.
Latita la competenza, ma anche il buonsenso e la coerenza: un giorno si annunciano i propri spostamenti descrivendo percorsi e movimenti, il giorno dopo si protesta contro le telecamere in centro. Un giorno si inseriscono online le foto private, il giorno dopo ci si lamenta per l’assenza di privacy.
Si dimentica che la riservatezza impone di tacere quando non si ha niente da dire, e riflettere quando si intende parlare. Solo così il discorso ci guadagna, il confronto diventa proficuo, la parola ritrova il valore che aveva perso.
Messaggi chiari e risposte coerenti: «il di più viene dal maligno», concludeva tranchant Gesù Cristo. Uno che di comunicazione si intendeva.
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Posted by pj su 23 giugno 2009
Se la manualistica educativa ha ampi riscontri di vendite e i decaloghi mantengono il loro fascino da migliaia di anni, si può prevedere un grande successo “Decalogo per genitori italiani”, l’ultima uscita dedicata a una categoria, quella dei genitori, sempre più confusa e incerta.
La letteratura di settore è controversa: prima ci hanno insegnato che i figli andavano educati in maniera rigida, poi ci hanno detto che no, che andavano lasciati liberi di fare quel che vogliono; qualcuno, a corollario, ha preteso di veder crescere una generazione di orfani virtuali, dove il genitore era un amico da chiamare per nome, ma i risultati deludenti hanno suggerito di rivalutare un approccio fermo: in assenza di una parola definitiva, per decenni ci si è barcamenati tra i due estremi.
Gli esperti di turno, ora, propongono un decalogo sobrio e, tutto sommato, condivisibile.
1. non pretendere da un figlio maschio meno di quanto pretendi da una figlia femmina.
Vero: a forza di servire e riverire, spesso ci ritroviamo di fronte ai classici bamboccioni che non sanno lavare i piatti o rassettare il letto.
Però, per par condicio, la norma andrebbe interpretata in maniera bidirezionale: non pretendere da una figlia femmina meno di quanto pretendi da un figlio maschio. Già oggi non sono pochi i casi di ragazze in età da marito incapaci di tenere in mano un ferro da stiro. Se poi sanno anche riparare una lampadina o montare una ruota di scorta, meglio: faranno contenti i paladini della parità. E anche i mariti.
2. non permettere che tuo figlio tenga dei comportamenti che disapprovi quando messi in atto dai figli degli altri.
Comportamento odioso, oltre che diseducativo: pretendere dagli altri bambini un comportamento adulto, e permettere al proprio di fare i capricci. I bambini non sono stupidi. Né quelli degli altri, né i nostri.
3. sii disponibile quando tuo figlio ti cerca, ma aiutalo solo quando non puà farcela senza di te.
In due parole: presenti ma discreti. Non fate i suoi compiti, e non rispondete quando le sue domande nascono dalla pigrizia di non voler aprire il dizionario.
4. allena tuo figlio a un rapporto responsabile con il denaro.
Evitiamo tre errori: dargli tutto quello che vuole, fargli credere che tutto si possa comprare, e dall’altro lato instillargli un senso del risparmio che rischi di sconfinare nell’idolatria.
5. avvicina tuo figlio ai libri e al piacere della lettura.
Fargli trovare in giro per la casa libri adatti è un’idea, ma il metodo migliore resta l’esempio. E qui, forse, prima di educare i nostri figli dovremmo educare noi stessi.
6. diventa alleato degli insegnanti nell’istruzione di tuo figlio.
È la soluzione migliore: giustificare il pargolo di fronte ai docenti lo porta a una sensazione di onnipotenza che, in seguito, non sconterà solo lui.
Certo, potrà capitare che in questa prospettiva talvolta il ragazzo si ritrovi a subire un’ingiustizia: gli insegnanti sono esseri umani. L’importante è comprendere che non si tratta di un dramma planetario: semmai lo aiuterà a formare gli anticorpi a una situazione che, nella vita, vedrà fin troppo spesso.
7. lo sport è importante per crescere, ma saper perdere è la prima cosa da imparare.
Ditelo ai genitori che, dagli spalti dei campetti di provincia, urlano insulti all’arbitro, dando una lezione desolante ai giovanissimi che, in campo, vorrebbero solo divertirsi.
8. tratta tuo figlio maggiorenne da adulto.
Bisogna rassegnarsi: crescono, prima o poi. Rallentare il percorso non giova a loro, e nemmeno a noi.
9. non idealizzare il destino di tuo figlio e credi nel suo futuro.
Non dargli false illusioni: non hanno mai fatto bene, e sono ancora meno salutari in tempi di recessione.
Non caricarlo di aspettative esagerate: il futuro è il suo, e solo marginalmente il tuo. Sii sobrio per insegnargli a essere sobrio.
10. dai un fratello, se possibile, al tuo figlio “unico”.
Naturalmente qui entrano in gioco variabili che non sempre si possono prevedere. Però se possibile, quando possibile, per molti versi un fratello cambia l’approccio alla vita.
Soprattutto, come chiosa Deborah Compagnoni, «i bambini sono persone; non sono una tua copia, né quel qualcosa che tu non sei». E forse, a ben guardare, è proprio questa la chiave per cimentarsi al meglio nell’impegnativo ruolo di genitori.
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Posted by pj su 17 giugno 2009
Sono giovanissimi, educati, vestiti sobriamente, con l’aria da bravi ragazzi. Li si riconosce da lontano: pantaloni scuri, camicia chiara, capelli corti, zaino nero, aria da americano yes-we-can. E, a distinguerli, un cartellino appuntato sul petto con nome, cognome e carica.
Sono i missionari mormoni, che vediamo girare nelle nostre città e, con garbo, avvicinarsi per raccontarci della loro fede e della loro dottrina. Non sempre, a dire il vero, sanno affrontare al meglio il contesto culturale italiano, ma ci provano sempre, con le armi che la scuola biblica ha dato loro e, quando non basta, con una dose di impegno pratico che va dai corsi d’inglese alle ripetizioni per studenti.
Qualcuno, forse, si sarà chiesto che fine facciano questi ragazzi una volta tornati in patria: anche se i mormoni sono una realtà numerosa, sarebbero comunque troppi per impegnarsi come responsabili di chiesa.
E allora? Il mistero è stato svelato sabato in un servizio sulla Stampa: «In gioventù i mormoni hanno l’obbligo di servire per almeno 24 mesi nelle missioni in giro per il mondo», un’esperienza che consente loro di imparare e raffinare le strategie comunicative fino a diventare ottimi venditori.
La Pinnacle Security, racconta il quotidiano, ha successo grazie a «prodotti competitivi, ma anche a una straordinaria rete di vendita diffusa su tutto il territorio americano e gestita sovente da ex missionari che mettono le esperienze maturate con la fede al servizio del business».
«È una missione trasformata in lavoro», spiega uno degli ex missionari che «come molti dei suoi colleghi si è fatto le ossa professando il suo credo, parla tre lingue, e ha sviluppato una capacità di convincimento degna del più abile negoziatore… Durante le missioni si apprendono vere e proprie tecniche di comunicazione» e «alcuni fondamenti validi in ogni situazione».
L’esempio mormone è una lezione utile.
Non sono in pochi a essere convinti che bastino la teoria e la conoscenza biblica per raggiungere le persone con il messaggio di speranza del vangelo. Hanno le loro risposte preconfezionate, che prescindono dalle possibili domande dell’interlocutore, e che si rifanno sempre agli stessi temi, alle stesse citazioni bibliche, e perfino allo stesso linguaggio. Un monologo dai toni passatisti che, comprensibilmente, non coinvolge troppo la controparte, e talvolta perfino la irrita.
Se provate a obiettare a questi evangelisti retrò che sarebbe opportuno adattarsi al contesto in cui vivono, risponderanno che “il messaggio del vangelo non cambia”. Questo, nella loro prospettiva, li autorizza a usare lo stesso linguaggio aulico di Luzzi, e talvolta perfino gli arcaismi di Diodati.
Ma solo quando parlano di Dio, ovviamente. Non certo al supermercato, in ufficio, a casa. Il tono formale scatta solo in certe specifiche occasioni.
Per il resto, curiosamente, quelle stesse persone non disdegnano di impegnarsi a usare i termini più corretti per rendere interessante un annuncio sul giornale, o di usare la formula più efficace per convincere l’assemblea condominiale.
A quanto pare solo quel vangelo che sta tanto a cuore non può giovarsi di questo privilegio: il privilegio della comprensibilità.
E dire che la società avrebbe bisogno di una risposta e, in fondo, sta solo cercando qualcuno che gliela sappia presentare in maniera comprensibile. I mormoni, nel loro piccolo, qualcosa hanno capito.
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Posted by pj su 11 giugno 2009
Su un periodico promozionale ho trovato alcuni consigli su come reagire alla crisi “usando la testa e attuando strategie di spesa intelligente”.
Ecco i punti più significativi della tattica suggerita:
1. andare a fare la spesa con un elenco ragionato per risparmiare tempo e denare e “imparare a ottimizzare quello che c’è in dispensa”. In effetti molto spesso a casa abbiamo scorte esagerate, barattoli dimenticati, cibi in scadenza. La crisi, in fondo, ci aiuta a essere più oculati e, allo stesso tempo, più etici.
2. fare swapping. Che è semplicemente un modo più elegante e internazionale per definire il baratto. A casa abbiamo, probabilmente, beni che non usiamo mai né useremo più. Scambiarli potrebbe essere utile per risparmiare qualche euro, oppure – perché no – potremmo addirittura permetterci il lusso di regalarli a chi ne ha bisogno. Chi pensa che in tempi di crisi non si può esercitare la generosità probabilmente dimentica il patrimonio di beni inutilizzati, ma soprattutto quella riserva di energie e buona volontà che ci può permettere di essere benevoli anche quando non possiamo largheggiare. La vita e i rapporti sociali non si misurano solo in euro.
3. approfittare degli sconti. Negli outlet si praticano prezzi ridotti del 50%, che arriva al 70% nel periodo dei saldi. Attenzione però: nonostante questo, l’outlet rischia di far spendere di più. Succede quando si decide di farci un giro senza una meta precisa, con la scusa che “magari trovo qualcosa di interessante”. Il superfluo è il peggior nemico del risparmio.
4. i supermercati propongono a rotazione una serie di beni a prezzo ridotto di cui si può approfittare. Tuttavia il rischio, di fronte a queste offerte, è importante evitare la sindrome da acquisto compulsivo: gli sconti sono una convenienza fino al momento in cui non subentra la logica del “prendiamolo comunque, costa poco!”. Se un prodotto non serve, non c’è sconto che tenga: l’acquisto sarà una spesa ulteriore.
5. riprendere l’abitudine a recuperare l’abbigliamento, anziché scartarlo al primo segno di usura. È sufficiente riscoprire sarti e calzolai.
Sono consigli spiccioli, spesso scontati. Eppure, se fossero stati così scontati, negli anni passati non ci saremmo sentiti dire, in spregio a ogni logica e pudore, che famiglie con introiti da 2500 euro al mese non arrivavano alla quarta settimana.
Sì, sarebbe davvero un bel progresso se la crisi ci aiutasse a riscoprire quella sobrietà che, anno dopo anno, abbiamo smarrito mentre rincorrevamo un consumismo sempre più spinto.
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Posted by pj su 12 febbraio 2009
Nove anni fa, il 12 febbraio del 2000, moriva Charles Schultz. Disegnatore di successo, era diventato famoso negli anni Cinquanta per i Peanuts, strisce che per cinquant’anni hanno raccontato quotidiamente le avventure di Charlie Brown, Snoopy e la loro compagnia di piccoli amici.
Schultz era un cristiano convinto, e la sua fede si percepiva anche nelle storie che raccontava attraverso i fumetti.
Lo conferma un libro ormai datato ma sempre piacevole, scritto dal teologo Robert L. Short e intitolato “Il vangelo secondo Charlie Brown” (Gribaudi editore). Sì, proprio Charlie Brown, il bambino dalla testa tonda che è al centro delle mille piccole avventure dei Peanuts.
Naturalmente non si tratta di un altro vangelo, né il volume ha intenti canzonatori nei confronti della Bibbia. Anzi.
Nelle piccole storie dei personaggi di Schultz è facile trovare una profonda morale cristiana, spaccati di vita quotidiana vestiti di paradossi e iperboli. Proprio partendo da questa constatazione, Short ha voluto andare in profondità e analizzare in chiave dottrinale e sociologica le “strisce” di Schultz, trovandoci sorprendenti spunti spirituali.
Resterà deluso, però, chi pensa che “Il vangelo secondo Charlie Brown” – ripubblicato numerose volte da Gribaudi – sia una semplice raccolta delle strisce più cristianeggianti nella produzione di Schultz: non è una collezione di fumetti, ma piuttosto un profondo insegnamento.
Da un lato “Il vangelo secondo Charlie Brown” parla a tutti i cristiani talentuosi, a volte incerti sul modo di esprimere la propria arte al servizio di Dio; dall’altro lato parla ai cristiani in generale, stimolandoli a comprendere l’importanza di «imparare a parlare in modo comprensibile agli uomini là dove essi si trovano», per usare appunto le parole dello stesso Schultz.
“Là dove essi si trovano”, e non è solo un modo di dire: all’inizio della sua carriera Schultz ha constatato che buona parte dei lettori di quotidiani si ferma alla pagina dei fumetti, e che questo corposo numero di lettori va raggiunto proprio lì, attraverso gli opportuni talenti.
A nove anni dalla scomparsa, e a quasi sessant’anni dalle prime strisce, il suo appello resta valido, anche se risulta ancora poco ascoltato dai cristiani di tutto il mondo.
Per questo viene da pensare che forse, per noi cristiani, il modo migliore per ricordare Schultz è ricordare questa sua intuizione e farne tesoro.
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